venerdì 9 ottobre 2015

Red Hot Chili Peppers - One Hot Minute

Titolo: One Hot Minute
Artista: Red Hot Chili Peppers
Anno di pubblicazione: 1995
Nazionalità: California, USA

Non mi pare di aver mai sentito parlare di One Hot Minute, il che mi fa supporre che sia un capitolo minore della discografia dei Red Hot Chili Peppers. Mi pare allora una buona idea provare a scrivere due righe a proposito, visto che di commenti ai dischi famosi se ne trovano a un soldo la dozzina, e il mio non aggiungerebbe nulla.
Andando ad intuito, mi pare che si tratti di uno di quei cosiddetti “dischi di transizione”, intendendo con questo termine un album nel quale si possono individuare i germi della produzione successiva di un gruppo ma che, vuoi per paura di osare, vuoi per affetto verso le vecchie sonorità, non sono pienamente messi in luce. Quindi abbiamo un paio di ballatone di quelle che già prefigurano The Zephyr Song come My Friends e Tearjerker (ci metterei pure Trascending, se non fosse per l’argomento trattato e il finale acidissimo), i prodromi del pop di Stadium Arcadium (Aeroplane), ma anche un po’ di aggressività che, se anche non raggiunge i momenti più punkettoni di Blood Sugar Sex Magik, fa comunque pensare a gruppi alternative come gli Incubus (l’iniziale Warped su tutte).  Però, se consideriamo che questi ultimi hanno preso molto dai RHCP, non è certo positivo il processo contrario.

Personalmente mi piace moltissimo il lato più funky e ignorante del gruppo, il che mi impedisce di apprezzare granché un disco in cui questo aspetto tende ad essere messo da parte, ma almeno due episodi sono davvero belli: One Big Mob (una Magic Johnson di sei minuti) e Walkabout (bellissima passeggiata a ritmo funky). Il resto è dubbio. Si può apprezzare la volgarità pacata di Pea (voce e basso, ma nulla di particolarmente entusiasmante) o il degrado giovanile dell’ottima Deep Kick (che già che c’è cita pure i Butthole Surfers). Senza contare che il disco dura un’ora piena. La copertina, però, è molto bella.

Valutazione personale per chi non ha voglia di leggere: 6.5

domenica 20 settembre 2015

Saint Vitus - Hallow's Victim

Titolo: Hallow’s Victim
Artista: Saint  Vitus
Anno di pubblicazione: 1985
Nazionalità: California, USA

I Saint Vitus appartengono a quella frangia di gruppi doom metal vecchio stile, che proponevano un heavy metal in stile Black Sabbath ancora più distorto e rallentato. La ricetta è semplicemente questa, e i 34 minutidi Hallow’s Victim sono una perfetta rappresentazione di una tale ricetta. La formazione è quella classica: voce, chitarra, basso e batteria. Quanto ala produzione, è “classica” pure quella: come da miglior tradizione metal, infatti, i suoni sono grezzi e impastati al punto che risulta difficile riconoscere i vari strumenti (il basso, per esempio, si può sentire distintamente solo per quei pochi secondi in Mystic Lady in cui le chitarre tacciono). Non mi sento di mortificare eccessivamente il disco per la produzione, comunque.
Quanto alle composizioni, la struttura dei brani è semplicissima: riffoni galoppanti che incalzano l’ascoltatore e lo invogliano a scuotere la testa (immagino abbiate presente l’immagina del metallaro headbanger) che si alternano a “ponti”, credo che si chiamino così i momenti di passaggio tra un riff e l’altro, decisamente poco ispirati (quell’orrore di chitarra tra la strofa e il ritornello di Just Friends (Empty Love) – tra l’altro il pezzo peggiore del disco – non si può proprio sentire) e assoli marci che vanno dalle staffilate al limite del rumor bianco (War Is Our Destiny) a serie di note riconoscibili e apprezzabili (Mystic Lady e White Stallion). Il tutto condito con la voce di Scott Reagers che, senza bisogno di lanciarsi in improbabili acuti né di scendere al livello di un growl (che ancora non era una soluzione tipica) sfoggia una bella voce oscura e profonda, anche se non particolarmente intonata. Menzione va fatta per l’ingenuità delle liriche, che a volte mi fanno chiedere se per caso non sia tutta una presa in giro del canone.
Riassumendo, il disco suona bene per tutta la durata del lato A (War Is Our Destiny, White Stallion e Mystic Lady) per poi perdersi nel lato B dietro sciocchezze francamente evitabili (come la punkettona title-track o l’orribile Just Friend).


Valutazione personale per chi non ha voglia di leggere: 5.5


Post Scriptum: visto che è da un po’ che segnalo solo metal, per tutti quelli che hanno voglia di ascoltare qualcosa di diverso consiglio il folk/vaudeville scanzonato e zoppicante della Bonzo Dog Band. Gorilla e The Doughnut in Granny’s Greenhouse sono due ottimi album, anche se un po’ vecchiotti.

martedì 8 settembre 2015

Cathedral - The Carnival Bizarre

Titolo: The Carnival Bizarre
Artista: Cathedral
Anno di pubblicazione: 1995
Nazionalità: UK

Negli ultimi tempi ho capito che dopotutto non sono mai uscito da quell'atteggiamento snobbone e borioso che caratterizza il tipico adolescente "musicologo" (termine che qua uso solo per inidcare uno che si fa vanto di ascoltare tanta roba diversa). Il problema è che molta roba ho fatto finta di apprezzarla ma poi in realtà magari neppure avevo capito cosa stessi ascoltando. Fatto sta che adesso, per una questione di onestà intellettuale, cerco di ascoltare con un po' più di criterio. Magari provo meno dischi, ma almeno ho preso quell'atteggiamento bulimico.

Veniamo ai Cathedral: il fondatore è Lee Dorrian dei Napalm Death, ovvero il gruppo che ha praticamente fondato il grindcore (quel che si ottiene lanciando il death metal alla velocità dell'hardcore punk). La musica del gruppo, tuttavia, è un doom metal molto vecchia scuola, caratterizzato da riffoni corposi, tempi lenti e distorsioni grezze, di quelle che è difficile non sentirci i primi Black Sabbath dietro. Ma dopotutto negli anni '90 stava tornando di moda quello stile (gruppi come Kyuss, Sleep e Monster Magnet nascono tutti in questo periodo). Dorrian canta con una voce semidistrutta ma incredibilmente "intonata" ed espressiva (basta confrontare Fangalactic Supergoria ed Electric Grave per rendersene conto). Per quel che riguarda i testi, attingono al repertorio classico della magia nera e del compendio di malvagità dell'heavy metal classico (Vampire sun e Hopkins (The Witchfinder General) sono due ottimi esempi), ma senza scadere nel cliché.

Insomma, così descritto sembrerebbe un buon album: purtuttavia, confrontato coi precedenti Forest of Equilibrium (1991) e The Ethereal Mirror (1993), The Carnival Bizarre non regge il confronto: è un disco solido, compatto e omogeneo, ma manca della monoliticità del primo (un'ora di chitarre gorgoglianti e growl incomprensibile su tempi lentissimi) e dell'energia e della varietà del secondo (nel quale Dorrian cantava decisamente meglio). Per quanto sappia che il genere si nutre anche di brani discretamente lunghi per sviluppare un'atmosfera più che coinvolgere nell'immediato l'ascoltatore, l'ora buona di durata di The Carneval Bizarre mi è sembrata eccessiva. Un lavoro ben fatto ma che alla fine non mi ha lasciato così tanto. Comunque se vi piace lo stoner ve lo consiglio.

Valutazione personale per chi non ha voglia di leggere: 6.5